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Inserita in Cultura il 19/11/2019 da Cinzia Testa

Nello spazio il ricercare dio è il motivo intimo dell´esistere. “Un ovale marmo perlato su panorama” dell’artista Turi Simeti collocato nella sua città Natale di Antonio Fundarò

Nello
“Un ovale marmo perlato su panorama” dell’artista Turi Simeti è stato collocato nella sua città Natale (di Cielo e della “Rosa fresca Aulentissima”), sul meraviglioso belvedere che si apre sul golfo di Castellammare e sul crinale delle colline vitate del Bianco Alcamo Doc, dedicato proprio ad un altro intellettuale alcamese, Sebastiano Bagolino. Si tratta di un imponente monolite ovale, la caratteristica artistica che ha sempre contraddistinto le opere di Simeti, dalle dimensioni 340x260x40 centimetri, in marmo perlato di Custonaci, in grado di porsi in perfetto equilibrio sul filo dell’orizzonte, tra la dimensione imperfetta del mondo, la sua caducità, le non perfette linee e curve, le molteplici e multiforme caratterizzazione umane (da un lato la città, incapace di trovare sintesi artistica, nell’abusivismo dilagante degli anni ’80, dall’altro la campagna, con i suoi sudati filari di vitigno catarratto) e la dimensione della perfezione creatrice che, invece, è apoteosi di gusto estetico, ricerca di assolutezza, vagabondaggio stellare e, poi, su, su, sino al tentativo di captare il più sincero e profondo messaggio creatore e puro spirito. L´artista Simeti, dunque, ha voluto mettere a nudo il suo ovale, non intendendo comunicare altro che l’assolutezza della forma di fronte alla profondità del paesaggio e all’infinita profondità dell’esistenza. Un ovale che, sebbene con Simeti ritorna al suo fasto architettonico, matematico, artistico e filosofico, non è del tutto nuovo nell’arte mondiale e italiana in particolare. Sono gli inizi del XVII secolo che iniziano a valorizzare l’ovale, non dimenticandoci piazza San Pietro, in Roma, abbracciata dal colonnato del Bernini, che è perfettamente ovale. Nella ricerca di forme nuove per le chiese e per gli edifici civili, l’architettura barocca si accorge, infatti, delle potenzialità dell’ovale policentrico, che per sua natura ha un grado di libertà in più rispetto all’ellisse con il quale, sbagliando, le due forme sono erroneamente confuse. Questo vuol dire, ad esempio, che all’interno di un rettangolo è possibili inscrivere (cioè tracciare internamente allo stesso toccandone i lati senza attraversarli) una sola ellisse, mentre di ovali con la stessa proprietà ne esistono infiniti! Questa peculiarità consentì ad artisti come l’architetto Borromini di utilizzare l’ovale al fine di creare forme bi- o tri-dimensionali con maggiore libertà espressiva a quanto consentito dall’uso di altre forme. Quella stessa libertà che è riuscito e riesce, tuttora, a sprigionare, efficacemente, il nostro Turi Simeti. Un esempio che ci mostra quanto potente sia la forza creatrice dell’ovale, è la cupola di San Carlo alle Quattro Fontane a Roma, per la realizzazione della quale, Borromini, con tutta probabilità, esperimentò (per mezzo di modellini) più progetti derivanti da costruzioni diverse di ovali, fino all’ottenimento della forma che creasse l’effetto da lui voluto. Pur condizionato infatti dalle misure dello spazio a disposizione, da rispettare con precisione, trasformò il problema in una occasione per generare una personalissima sequenza di ovali che dalla base (l’imposta) salissero fino all’inizio della cosiddetta lanterna – una piccola torre illuminata dall’esterno – regolando la complessa decorazione a cassettoni a forma di croce e di ottagono, adottando delle strategie che slanciassero la cupola verso l’alto agli occhi dell’osservatore che si trovasse all’interno della chiesa. Fu così, che l’ovale, adoperato in un primo momento come disarmonica copia della divina ellisse, esibì, meglio se pensiamo a Turi Simeti, ostentò, volendone tracciare la potenza creatrice, col tempo la sua umanità e la sua spiritualità profonda, dando all’artista l’arbitrio di come utilizzare forme perfette e prevedibili, come le circonferenze, per creare sorpresa, contrasto armonico, come, d’altronde, bene precisa, nella sua recente autobiografia, il liutaio Martin Schleske quando scrive con una magistrale potenza lirica, l’ovale. Questo simposio di creatività, immaginazione, fantasia, finezza estetica. «Gli ovali non descrivono né una funzione matematica (come invece l’ellisse) né una forma arbitraria. […] Due elementi si integrano in una dialettica eccezionale: familiarità e sorpresa. E formano un contrasto armonico. […] In questa forma l’una non può esistere senza l’altra». E, innanzi a tanta potenza, a tanta sovrumana catarsi delle debolezze e delle imperfezioni, risulta assolutamente ridicolo, leggere, sorridendo, quanti miserabili, quanti poveracci, in queste ore stanno tentando, con la inconsapevolezza del loro essere niente, l´avventura più fastidiosa della loro esistenza. Il misurarsi, impari, con l´attività creatrice che l´uomo possiede in quanto creato ad immagine e somiglianza di Dio. Ma Dio è perfezione e l´artista, il poeta, lo scrittore, il pittore, l´architetto, lo scultore, crea anelando a Dio. E il "miserable" a chi anelita, vittima com´è del male interiore che muove dall´invidia e dalla rabbia della limitatezza che alberga in chi è incapace di leggere il motivo della sua esistenza e dell´esistente? Incapace di andare oltre il suo unico visibile: il suo miserrimo naso che possiede. "L’arte è capace di esprimere e rendere visibile il bisogno dell’uomo di andare oltre ciò che si vede, manifesta la sete e la ricerca dell’infinito. Anzi, è come una porta aperta verso l’infinito, verso una bellezza e una verità che vanno al di là del quotidiano. E un’opera d’arte può aprire gli occhi della mente e del cuore, sospingendoci verso l’alto" scrive Papa Benedetto XVI.

La parabola, in effetti, ci spinge verso l´alto, cerca di captare il segnale della vita, tentando di ricercare l´attività creatrice di Dio, oltre lo spazio ed il tempo.

C´è il tentativo, mai sopito nell´uomo, non arrogante ma riflettente, di non attendersi alle verità, e di cercarne di nuove, quasi impaurito che le verità possano definitivamente sopire il suo gusto per il nuovo. Ma, se pensate bene, non può che essere così, quando, anche per l´artista, la vita volge al desio. E lì, in questo turbinio di emozioni, di speranze, di angosce, il suo desiderio profondo è quello di guardare l´infinitezza cercando di scoprirne l´essenza e, credo sia proprio così, l´essere che, quotidianamente dà segnali che nessuno legge e nessuno introietta.

Semplicemente perché la pochezza del finito non riesce ancora a cogliere, nel suo grembo l´università.

Ed in effetti, scrive bene San Giovanni Paolo Secondo quando afferma che "l´arte è esperienza di universalità. Non può essere solo oggetto o mezzo. È parola primitiva, nel senso che viene prima e sta al fondo di ogni altra parla. È parola dell’origine, che scruta, al di là dell’immediatezza dell’esperienza, il senso primo e ultimo della vita".

E chi meglio di un novantenne attento può avere l´intimo desiderio di scoprire, nell´universo indefinibile e inconoscibile nella sua interezza, il senso primo e ultimo della vita?

L´uomo perché nasce? Perché muore? Perché è costretti a vivere il travaglio dei tempi e dello spazio?

Lì, in quella parabola, lì in quel coacervo di infiniti rotoanti amletici cerchi concentrici del divenire, c´è la speranza di poter continuare a sperare, di ascoltare il segnale della vita eterna che si eterna nelle debolezze umane comprendendone i limiti ed esaltandone le paraboliche infinitezze dello spirito umano, debole ma non sconfitto, distratto ma non incapace di sentire Dio proprio lì, in quel magmatico crocevia, la Madonna, il sentiero oer dimore eterne, la natura, l´orizzonte magnetico in cui l´uomo annega il desiderio di conoscenza.

Proprio perché l´’arte è una gran maga! Essa crea un sole che splende per tutti come per l’altro e coloro che vi si avvicinano, anche i poveri, anche i contraffatti, anche i ridicoli gli rapiscono un po’ del suo calore, un po’ dei suoi raggi. Questo fuoco del cielo imprudentemente rapito, che i “ratés” raccolgono nel fondo delle loro pupille, li rende talvolta terribili, più spesso ridicoli; ma la loro esistenza ne ritrae una serenità grandiosa, un disprezzo del male, una grazia a soffrire sconosciuta agli altri miserabili" scrive Alphonse Daudet, senza conoscere affatto Turi Simeti e neppure i tanti ridicoli che si stanno avventurando in inutili stratosferiche ricerche dell´utile sensibile dell´arte, vittime come sono di povertà d´animo e di povertà umana.

L´arte, di Michelangelo o di Simeti, avrà senso se permetterà ai tanti miserabili dei pregiudizi, tanti davvero, di vivere la serenità grandiosa dell´arte che comunica, intimamente, con l´eterno. Il nostro eterno è Dio non Facebook nel quale vomitare l´incapacità di essere, l´incapacità di fare, l´incapacità di sapere, l´incapacità di capirsi.



Foto di Antonio Fundarò

 

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